Buon pomeriggio lettori!
Siamo qui riuniti oggi per celebr… ehm, ehm *colpo di tosse*
Ritorno sul blog in questo pomeriggio di lunedì per dare il mio contributo al secondo e al terzo “compito” della Blogger League Event che, vi ricordo, è stato partorito dalla mente di Consuelo del blog Palle di neve di Co. e che durerà una settimana, dal 18 novembre al 26 novembre.
Questo secondo “compito” riguarda le citazioni, detto con le parole di Consuelo:
Blogger e lettori devono citare, ovviamente, i brani che più li hanno impressionati e spiegare perché. Niente di più semplice e comunque motivo di spunto per nuove letture e confronto!!!
Per questa occasione, quindi, ho scelto due brani tratti da Amabili Resti di Alice Sebold.
Dentro la palla di neve sulla scrivania di mio padre c'era un pinguino con una sciarpa a righe bianche e rosse. Quando ero piccola papà mi metteva seduta sulle sue ginocchia e prendeva in mano la palla di neve. La capovolgeva perché la neve si raccogliesse tutta in cima, poi con un colpo secco la ribaltava. E insieme guardavamo la neve che fioccava leggera intorno al pinguino. Il pinguino è tutto solo, pensavo, e mi angustiavo per lui.
Lo dicevo a papà e lui rispondeva: «Non ti preoccupare, Susie, sta da re. È prigioniero di un mondo perfetto».
Si tratta dell’incipit del libro, il prologo insomma ed è stato proprio questo piccolissimo estratto a convincermi di comprare il libro. Quando ero piccola ho avuto lo stesso pensiero di Susan, mi dispiaceva osservare i minuscoli personaggi all’interno delle sfere di vetro nevose, fisse, immobili, ma che io vedevo quasi come essere umani, quasi come me e sì, insomma, ero triste perché loro erano da soli, al freddo, sotto lo neve e io invece avevo i miei genitori e stavo al caldo. Una volta ho anche cercato di romperne una per poter mettere i piccoli personaggi sul termosifone, al caldo; fortuna che qualcuno mi ha fatto desistere dall’impresa :D
Il secondo brano, invece, è tratto dal primo capitolo:
Mi chiamavo Salmon, come il pesce. Nome di battesimo: Susie. Avevo quattordici anni quando fui uccisa, il 6 dicembre del 1973. Negli anni Set- tanta, le fotografie delle ragazzine scomparse pubblicate sui giornali mi somigliavano quasi tutte: razza bianca, capelli castano topo. Questo era prima che le foto di bambini e adolescenti di ogni razza, maschi e femmine, apparissero stampate sui cartoni del latte o infilate nelle cassette della posta. Era quando ancora la gente non pensava che cose simili potessero accadere.
Nel diario delle medie avevo ricopiato un verso di un poeta spagnolo, Juan Ramón Jiménez; era stata mia sorella a farmelo conoscere. "Se vi danno un foglio squadrato, scriveteci sopra dall'altro lato".
L'avevo scelto perché esprimeva tutto il mio disprezzo per gli ambienti rigidamente strutturati tipo aula scolastica che mi vedevo intorno e perché secondo me mi dava un'aura letteraria: non era una citazione idiota di un gruppo rock. Ero iscritta al Club degli scacchi e al Club della chimica, e bruciavo tutto quello che provavo a cucinare durante le lezioni di economia domestica della professoressa Delminico. Il mio preferito era il professor Botte, insegnava biologia e si divertiva a far ballare le rane e i gamberi, che in seguito avremmo sezionato, sulle loro tavolette di cera.
Comunque non fu il professor Botte a uccidermi. E non crediate che tutte le persone che incontrerete in questa storia siano gente sospetta. Ecco il problema. Uno pensa di sapere, e invece non sa. Il professor Botte venne alla messa in mio suffragio (come, ci tengo a dirlo, fece quasi tutta la scuola... non ero mai stata tanto popolare) e pianse un bel po'. Aveva una figlia malata. Noi lo sapevamo, e quando raccontava le barzellette e rideva da solo - un repertorio stravecchio già secoli prima che diventasse il mio professore - noi ridevamo con lui, a volte solo per vederlo contento. Sua figlia morì di leucemia un anno e mezzo dopo di me, ma nel mio Cielo non l'ho mai incontrata.
Il mio assassino era un vicino di casa. A mia madre piacevano i fiori ai bordi del suo giardino, e una volta papà aveva parlato con lui di fertilizzanti. Il mio assassino credeva ai rimedi di una volta, tipo i gusci d'uovo o i fondi di caffè; sua madre li aveva sempre usati, sosteneva. Papà era tornato a casa divertito, ironizzando sul fatto che quel giardino poteva pure essere bello, ma con il primo caldo sarebbe diventato una pattumiera e la puzza sarebbe arrivata fino al cielo.
Invece il 6 dicembre 1973 nevicava e tornando da scuola tagliai per il campo di granturco. Era già buio perché le giornate d'inverno erano più brevi, e mi rammento come gli steli spezzati mi ostacolassero il cammino. La neve cadeva leggera, sembrava una folata di tante manine, io respiravo con il naso, ma quando cominciò a colare spalancai la bocca. A un paio di metri dal signor Harvey, misi fuori la lingua, per assaggiare un fiocco di neve.
Perché ho scelto questo brano? Beh, innanzitutto, perché non capita molto spesso di ritrovarsi a leggere il nome dell’omicida già nel primo capitolo (e quando lo lessi rimasi scioccata perché credevo che fosse un libro mistery) e poi perché quando lessi la frase Il mio assassino era un vicino di casa, ricordo che trattenni il fiato fino alla fine della pagina, perché nessuno crederebbe mai che una persona così vicina a noi possa farci del male, no? Magari non la conosciamo bene, ma non penseremmo mai che si tratti di un assassino.
Il libro nella sua totalità è stato uno shock per me e una benedizione insieme, ma questa è un’altra storia che forse un giorno vi racconterò.
A più tardi con il terzo “compito”!
Mara